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Odio gli indifferenti – Goodmorning Genova

Ho sempre apprezzato di più quegli adulti che – a me ragazzino – mettevano in testa delle buone domande, più che delle certezze. Mi veniva la nausea quando qualcuno la metteva sul “vedrai tra qualche anno quando dovrai sottostare anche tu a questo e a quello…”. Al contrario, ero scosso da quelle domande semplici che se prese sul serio ti spalancano l’esistenza, le possibilità, i desideri.

Dove vogliamo andare? Come vogliamo vivere? Cosa vogliamo cambiare?

Domande che certo non tutti si possono permettere. Sono reduce da un viaggio in Congo dove si sbatte subito la faccia con una umanità schiava (assolutamente prevista dal disegno della nostra economia globale) che certe domande non le contempla neanche, perché non ha alcuna possibilità di decidere del proprio destino. E tornato qui, mi incazzo di fronte a quei segni di superficialità, di qualunquismo, di stupidità manifesta, di rinuncia a decidere, a costruire sogni, segni che fuoriescono ogni giorno guardandosi in giro. Uno di questi, tanto per agganciarsi all’attualità, è l’astensionismo vergognoso, che chi esercita solitamente non compensa con alcun’altra iniziativa per il bene comune.

Le grandi domande di fondo, quelle in grado di dare senso e significato al nostro passaggio in questa vita, sono anche oggi di fronte a noi, a tutte le età. E nella nostra città sarei curioso di sapere quanti se le pongono. Non per dividere la folla in “migliori-peggiori”, ma per capire se i comportamenti di tante persone che noto ogni giorno siano guidati da una visione, una ricerca profonda, qualcosa di più che non gli istinti di sopravvivenza, i gusti, le dinamiche di gruppo, le influenze pubblicitarie o culturali…la noia, il vuoto, la frustrazione.

Me lo chiedo perché raramente incontro qualcuno che abbia delle visioni sul futuro; al di là dei soliti slogan. Certo, le forti pressioni del sistema in cui respiriamo h24 e delle sue crisi strutturali (che nella mia memoria emergono con le istanze del G8 di Genova, passano per la crisi finanziaria del 2007 e arrivano alla pandemia), riducono il “futuro” alle preoccupazioni di breve termine dell’individuo: avere due soldi, avere lavoro, avere casa, avere divertimento, avere partner… Avere.

Così, se da un lato nel terzo millennio vengono meno i riti, i tabù, le appartenenze, le convenzioni, le realtà di massa, dall’altro lato – se non ci si pone le domande esistenziali – una omologazione inconsapevole ancora peggiore mette a rischio oggi la possibilità di vivere pienamente, e di rinnovare l’intero sistema, proprio quando sembra più necessario farlo. Proprio quando molti dovrebbero avere gli strumenti per capire, valutare, decidere e agire. E invece, diventano perfetti spettatori, consumatori del tempo libero, lamentazioni ambulanti.

Ogni persona che – guadagnata l’età adulta – si fa abituare alle consuetudini del sistema lavorativo, economico, dei consumi, del vivere quotidiano, è un adulto che nasce vecchio. Che diventa esponente di un sistema vecchio. Che rinuncerà a tenere vivi percorsi di ricerca di vie alternative. E che col passare del tempo, vincolandosi a vecchi vincoli mentali, farà sempre più fatica a pensare liberamente e ad avere il coraggio di fare scelte differenti, esperienze nuove. Quando ad esempio le circostanze richiedessero di mettere la coscienza prima della legge, o di riportare la legge a servizio della comunità e non dei grandi interessi economico-finanziari… quanti sapranno anche solo farsi la domanda?

La sfida di mantenere una ricerca anti-sistema è personale ma ha conseguenze collettive (talvolta può diventare collettiva, a piccoli gruppi); e non contro-propone certezze né garanzie: si tratta di inventare tutto senza inventare nulla; inventare tutto un pezzetto per volta, con la chiara idea di dover tentare qualcosa di “diverso”, senza sapere quasi mai cosa o come, attingendo a pratiche ed esperienze esistenti ma perlopiù poco visibili (e non è un caso). I buoni maestri non sono mai socialmente promossi. Perché inquietano, scomodano, criticano, creano, suscitano cose non previste o non foriere di interessi; tendono a spingere lo spettatore sul piano dell’attore socio-politico. Meglio bollarli come “radicalismi”. Meglio restare sulla “cultura oppio del popolo” che intrattiene facendo sentire migliori.

Non che sia sempre e per tutti possibile intraprendere percorsi di vita alternativi alle consuetudini “dominanti” – da molti ritenute “inevitabili”; è però possibile allenarsi a cercare momenti quantomeno più liberanti, più protagonisti e critici. Troppe persone per condizioni di crescita e di educazione non arrivano a maneggiare strumenti culturali adeguati per analizzare criticamente il sistema, prima di ritrovarvisi vincolati. E pochi di quelli che si vincolano ad esso, nonostante le loro capacità, manterranno nel tempo una verve critica e un’audacia pratica incisive. Diventeranno persone estremamente prevedibili e accontentabili.

Chi, però, ha il privilegio (ma dovrebbe essere un diritto) e l’opportunità di acquisire consapevolezza rispetto alle domande di fondo, ha in un certo senso anche la conseguente responsabilità di tenere al centro queste domande, di confrontarsi, di cercare buoni maestri, di tentare piccoli passi “di lato” nel costruire la sua vita, la sua routine, sperando di contribuire a cambiare qualcosa dell’esistente e a testimoniare che ciò è possibile.

La nostra vita con l’ambiente. Il nostro modo di abitare. L’alienazione e la non-scelta di molti lavori. L’accoglienza e l’inclusione dei fragili. La redistribuzione delle risorse. La solitudine e le psico-patologie del nostro tempo. L’economia circolare che non riguarda quasi nessuna delle nostre case, del mangiare, del vestire, del comprare. Eccetera. Ciascuno di noi, a partire dalla sua esperienza e dai sentimenti che ha verso i propri amici, può sviluppare delle “visioni” – perché di visioni ampie e profonde c’è bisogno – rispetto a ciò che noi possiamo scegliere per il futuro; della nostra comunità, forse anche dell’umanità.

Non si inventa nulla. Abbiamo già tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Importa ragionare sul senso che vogliamo dare alla nostra vita e sul senso che una comunità umana dovrebbe avere. Non mi piace ridurre tutto questo a idealismo, utopia, ideologia e parole simili. Qui si tratta di ripensare ogni aspetto del nostro vivere a partire dai limiti che presenta, dal senso che dovrebbe avere, e dalle opportunità di cambiarlo nel nostro personale futuro. Perché noi oggi non sappiamo stare al mondo. E senza accettare questo, non andiamo da nessuna parte. Sono inutili battaglie ideali se non impariamo a cambiare il nostro modo di vivere. Il tempo dei valori sbandierati dal salotto è finito. E ha fatto danni: illudendo molti di fare la loro parte, lasciando campo libero a ben altri sviluppi del mondo.

Ciascuno può cominciare ad avere visione – che ovviamente non sarà né assoluta, né unica, né esaustiva, né completa, né vincente –. Ma se diventiamo popolo frantumato, fatto di monadi, di consumatori, che non si chiedono mai “la vita in pienezza” cosa sia, la felicità di ogni individuo cosa sia, non stupisce che scompaiano tutte le occasioni di partecipazione sociale, dove si contribuisce perché ci si sente/ci si vuole in relazione con una comunità.

E in un mondo dove ormai le parole non hanno peso, paradossalmente questa non è retorica. Se le nostre vite “hanno un senso” o semplicemente “accadono”, non è retorica. Se ciò che accade attorno a noi viene da una certa spinta, viene da un’altra, o “accade”… Domandarsi questo è l’unica via d’uscita da una città come Genova sempre più insopportabile, perché non sa chi è, dove va, cosa vuole, chi la abita… E’ fatta di individui che si spostano, sopravvivono, consumano, non si conoscono, non scelgono insieme, si lamentano, ignorano…

Se ad oggi le grandi istituzioni e i grandi sistemi economici, finanziari, politici, non hanno perseguito totalmente la crescita della felicità delle persone, è perché questo non era e non è il loro vero obiettivo. Anche se decine di documenti e costituzioni lo dichiarano nei propri principi fondamentali, la felicità equamente distribuita delle persone non è una precisa volontà. E questo non è complottismo. Non importa cosa è. Importa ciò che abbiamo davanti agli occhi da decenni. Come ha ripetuto il neo-premio Nobel Giorgio Parisi, è incredibile dover ancora dire dopo trent’anni che il PIL non è un parametro sensato (né sostenibile) di misurazione del benessere e di orientamento delle politiche.

Oggi, con tutto quello che ci succede, dovremmo avere delle idee chiare su cosa vogliamo e cosa non vogliamo. Cosa conta di più e cosa è distrazione. Allenarci a cambiare un po’ per volta. E invece aumentano l’indifferenza, la superficialità e l’ignoranza. Ci si sente più soli, anche nel pensiero. Si ripiega sul tempo libero e l’intrattenimento, per dire di avere la vita piena. Eppure ci sono così tante energie, così tante possibilità, così tante piccole luci sparse ovunque! Ma il cielo rimane bigio.

Come se ne esce? Rompendoci le scatole a vicenda sul chiederci, da soli e poi in gruppo: “come se ne esce?”.

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Camminatore, comunicatore e musicista, Giacomo D'Alessandro vive a Genova. Le prime tracce di un blog ispirato alla figura del "ramingo" sono del settembre 2006. Una lunga e variopinta avventura tra il camminare e il raccontare, in tanti modi, grazie a tanti compagni di viaggio.