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La tragedia del Congo siamo anche noi – laGuardia

Un viaggio missionario dove si coltiva speranza tra sfruttamento e miseria

di Giacomo D’Alessandro


Nel corso del viaggio missionario che abbiamo compiuto lo scorso agosto – nonostante le difficoltà poste dalla pandemia – ho avuto modo di osservare da vicino la realtà del Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Una terra di cui raramente si ha notizia, e ancor più raramente il privilegio di una visita, di fatto defraudata di ogni diritto secondo il racconto di missionarie e missionari (italiani e congolesi) che qui spendono la vita, e che ci hanno offerto una visione socio-politica articolata e un’esperienza di prima mano. 

Il Kivu, per intenderci, è una porzione di Congo nel cuore dell’Africa equatoriale, che comprende il bacino del Lago Kivu e l’estremità settentrionale del Lago Tanganica, e confina con Uganda, Rwanda e Burundi. È una regione molto più vicina a questi paesi (e alla Tanzania) di quanto non lo sia alla capitale Kinshasa, dal lato opposto verso l’Atlantico. Ma soprattutto, è estremamente ricca di materie prime che determinano il mercato globale: il coltan (columbo-tantalite), il cobalto, l’oro, perfino il petrolio, il gas naturale e il legname pregiato. Buona parte di ciò che serve all’alta tecnologia, dagli smartphone alle batterie delle auto elettriche…

La nostra convenienza

Conviene a tutti – le multinazionali americane, cinesi ed europee, i governi dei paesi confinanti – che una “mangiatoia” simile per le nostre economie rimanga “terra di nessuno”, instabile, insicura, abitata da manodopera povera e ignorante. E così si presenta oggi il Kivu a chi si documenta su riviste specializzate. Un paese facilmente permeabile alla corruzione (11° posto nella classifica mondiale di Transparency International) e ai gruppi armati (solo nel Kivu ne sono mappati oltre 120). Un paese che non fa notizia e non dà ai suoi abitanti strumenti minimi per decidere del loro destino. In questo modo, il paese più ricco del mondo si trova nella situazione più povera del mondo. Senza servizi, senza diritti garantiti e senza neppure uno Stato forte come espressione popolare che possa garantire bisogni primari (scuole, sanità, fognature, raccolta rifiuti…), sviluppare infrastrutture minime (strade, ponti), figuriamoci concordare licenze eque a quelle aziende che vengono a scavare e portare via materie preziose.

Vivere tra niente e fatica

Il Congo è tutto e il contrario di tutto. Un luogo depredato dal mondo ai fini di quella economia di cui tutti noi beneficiamo, ma anche uno dei luoghi dove lo sviluppo e i diritti umani non solo non avanzano, ma arretrano. Non è un caso che il padre Franco Bordignon, saveriano, qui da 50 anni e politicamente attivo anche sotto il dominio del maresciallo-presidente Mobutu, affermi che per prima cosa il Congo oggi avrebbe bisogno di un suo esercito regolare, in grado di affermare uno Stato di diritto, e non la legge del “far west”. E non è un caso che una giornalista attenta come Marina Piccone (già osservatrice elettorale nel paese), che abbiamo incontrato a Bukavu, ci racconti il grande momento di speranza che furono le prime elezioni libere nel 2006, e una rapida delusione non appena fu chiaro che brogli e interessi spietati per spartirsi il potere tra “correnti tribali” erano la regola. Decenni di instabilità e di inefficacia politica hanno dunque lasciato andare in rovina non solo quelle infrastrutture di utilità pubblica come le strade (costruite dai coloni belgi), ma un tessuto sociale e tradizionale che si è trovato a più riprese depredato, violentato, sfollato, defraudato di terreni, bestiame, campi e attrezzature. 

Tanto che a Bukavu, capitale del sud Kivu – dove siamo rimasti 20 giorni per compiere diverse visite, interviste e alcune attività di volontariato – vive oggi circa 1 milione e mezzo di persone, migrate in città non per lavoro, ma per fuggire la vulnerabilità dei villaggi, abbandonando la loro tradizionale economia di sussistenza. E così si presenta oggi la città: niente fognature, niente piani regolatori, niente strade asfaltate, niente presa in carico dei minori e delle fragilità. Niente animali da soma, perfino: si fa tutto a mano e raramente ho visto nel mondo donne che fanno la fatica fisica di quelle congolesi, trasportando appesi alla testa sacchi di carbone o di patate da 70-80 chili, per chilometri, senza scarpe. Ma la cosa peggiore è constatare la quantità di bambini che lavorano invece di andare a scuola, spesso come spaccapietre per fare la ghiaia destinata all’edilizia. Per non parlare di quei 40.000 invisibili che secondo le ONG Amnesty e Afrewatch trovano lavoro nelle pericolose miniere, in zone sperdute della regione…

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Camminatore, comunicatore e musicista, Giacomo D'Alessandro vive a Genova. Le prime tracce di un blog ispirato alla figura del "ramingo" sono del settembre 2006. Una lunga e variopinta avventura tra il camminare e il raccontare, in tanti modi, grazie a tanti compagni di viaggio.