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I bambini invisibili. Un racconto dai campi rom di Giugliano (Gli Asini)

di Giacomo D’Alessandro

Lunedì mattina, le 6.40 a Scampia.
Colazione in piedi, veloce, con gli avanzi dei cornetti del giorno prima, ancora masticabili, e un tè caldo.
Scendiamo in ascensore dal decimo piano di uno dei casermoni fatiscenti e grigi che costellano tutta la periferia nord di Napoli. 
Simone carica alcune coperte pesanti su un furgone bianco che ha visto giorni migliori, ma è quel che c’è, dice, quel che c’era coi soldi che avevamo.
Si parte, come ogni mattina di ogni settimana dell’anno scolastico. Nel primo tratto di strada sembra di andare dritti in bocca al Vesuvio, il sole gli rimane dietro creando un gioco di luce pazzesco. Un vero vulcano di luce.
Venti chilometri quasi tutti su tangenziale, a quest’ora c’è poco traffico entrando nel territorio di Giugliano, un comune lungo 94 chilometri.

Io e Alice siamo accompagnatori occasionali, oggi prendiamo il posto di un paio di volontarie che non possono venire. Con noi, dietro, c’è Giulia, di Como, che ha 19 anni e un incarico di servizio civile per un anno con la comunità dei fratelli lasalliani di Scampia. 
Simone comincia a telefonare in viva voce. 
Una mamma dopo l’altra, sorelle, fratelli. È sveglio Brian? È sveglia Rosi? È sveglia Kathia? E il suo fratellino? Mi raccomando, che siano pronti fuori casa tra pochi minuti.
A volte deve fare il giro di tutta la famiglia per trovare al telefono qualcuno, e accertarsi che i bambini si siano alzati.

Tutti i giorni così, una battaglia che inizia prima di poter cominciare, dice. Si gioca tutto su piccoli lenti passi avanti, alternati a troppi passi indietro. 
Aspetta che chiamo padre Eraldo, che oggi va lui in via Cupa Perillo, dagli altri. Vedo che abbia capito chi deve recuperare.
E altre chiamate, segnale che va e che viene, comunicazioni a scatti, non fosse che per la lingua.
Arriviamo senza rendercene conto, la luce è ancora timida ma le ombre della notte non ci sono più.

Giugliano è una distesa di agglomerati abusivi, case diroccate, zone densamente abitate, fabbriche, campi in abbandono, discariche a perdita d’occhio dove la vegetazione si è fatta giungla.
Dalla strada svoltiamo all’improvviso, come a casaccio, in uno sterrato segnalato da cumuli di rifiuti marci alti due metri. 
E scorgiamo le prime baracche, accrocchi di legno, lamiere, stracci, qua e là alternate a vecchie roulotte nere di umidità. Il terreno è un pavimento di cocci e detriti boccheggianti in pozze di acqua marcia. 
Qualche donna si aggira nel gelo del mattino. 
Qualche faccia sporca di bambino si mostra dietro le tende sottili che fanno da porta di casa.
Ci fermiamo in uno spiazzo in mezzo al campo. 
Qualche saluto, qualche richiamo. E arrivano i primi.
Sei, sette anni, qualche bambina più grande. Si sono vestiti bene, con la cartella sulle spalle e la giacca pulita, pettinati il giusto.

Negli appartamenti borghesi sono i genitori a dover penare per spingere fuori di casa i bambini, il primo giorno della settimana. Qua i bambini e le bambine che possono andare a scuola sfoggiano il loro sorriso migliore, orgogliosi, emozionati. Corrono verso il furgone che li porta via.
Attorno a loro si muovono come anime in pena altrettanti bambini per i quali l’inserimento scolastico non è stato ancora possibile. E noi, quando possiamo andare a scuola, Simone? Anche noi vogliamo andarci.
Qualche papà viene a chiedere la stessa cosa. 
Come ogni giorno, Simone promette di fare il possibile, in tutti gli uffici e le questure e gli istituti dove riuscirà a mettere piede, per inserire anche gli altri bambini. Ma siamo pochi, dice, e siamo volontari, e dobbiamo pure inventarci il trasporto per diversi chilometri, e pagarci la benzina…
Le facce corrucciate non sono più deluse di sempre. 

Facciamo il primo carico e si riparte. Il sole ormai è affacciato dietro il monte Somma.
A un quarto d’ora di stradine dissestate c’è la scuola Don Peppe Diana, un istituto grandissimo. Il furgone si infila nel retro dei parcheggi dove abbiamo appuntamento con la vicepreside, che consegna a Simone e Giulia un sacco pieno di grembiuli. Se li è portati a casa e li ha lavati lei, per i bambini del campo rom. Perché al campo è difficile tenere pulito e asciutto e profumato il grembiule da indossare in classe. 
Lo scambio avviene come se si trattasse di droga. Giusto per non aggiungere imbarazzo ai piccoli, che si trovano in pochi minuti ad entrare in classe attorniati da mamme e papà che accompagnano i figli e gettano loro occhiate diffidenti. Lo stigma non ha bisogno di parole ad alta voce, si respira potente nell’aria di questo primo giorno d’inverno così freddo, di luce così tagliente. 

Il furgone si destreggia nell’ingorgo dei genitori davanti scuola e riparte per il campo, a caricare il secondo gruppo. Non ci sono abbastanza posti per un viaggio unico. E altre bambine ancora vanno portate in un istituto dalla parte opposta, perché si è cercato di fare un inserimento a piccoli numeri, per non ricreare gruppi ghetto nella stessa classe, nella stessa scuola.
Ora nel campo c’è più vita, comincia il viavai delle auto con i giovani che vanno a trafficare per portare a casa due soldi, il viavai delle donne che rassettano le baracche, i bambini piccoli attaccati al seno, alla schiena o al collo, e quelle che si avviano alla raccolta del ferro nei cassonetti della zona. 

Nessuno ha organizzato uno scuola bus comunale per garantire l’istruzione primaria a queste centinaia di minori.
Nessuno è qui con il cappello dello Stato a occuparsi di raccolta rifiuti, allaccio fognario, sicurezza energetica e acqua potabile. 
Nessuno prende in carico la richiesta di cittadinanza di tutte le donne e gli uomini che dopo decenni di vita in questa condizione avrebbero tutti i requisiti per farne richiesta. 

Simone, Raffaele, Enrico e la loro rete di volontarie, volontari, associazioni, cooperative tentano giorno per giorno, da oltre vent’anni, di mettere una pezza in questo come in altri dei campi rom disseminati tra Scampia e Giugliano.
Il fumo si alza dai primi roghi di rifiuti fatti per scacciare un po’ di freddo dalle ossa e per smaltire un po’ di fetore dalle viuzze del campo.
Dalle baracche bambini e ragazzine ci guardano incuriositi, con la normalità di chi non ha un appuntamento fisso con la scuola dell’obbligo. Che adulti potranno diventare, in questo stato di abbandono?

Carichiamo il secondo gruppo e ripartiamo per la scuola, siamo già in ritardo. Ma non tutte le bambine si sono presentate, non tutti hanno avuto il coraggio di alzarsi da letto, il gelo arrivato d’improvviso stanotte ha picchiato duro, e dormire in baracca o in tenda è quasi come dormire all’aperto.
Una bambina bionda con una lunga treccia ispida si aggira a piedi nudi nell’acqua marcia davanti a casa, e tossisce rumorosamente. 

Dopo il viaggio a scuola Simone ci porta verso un altro accampamento vicino alle famigerate ecoballe dell’emergenza rifiuti di Napoli, abbandonate nei campi da anni e ormai difficilissime da bonificare con i trattamenti a norma di legge. In mezzo a due baracche scarichiamo coperte pesanti e alcuni sacchi di vestiti, escono a prenderli le donne, sole, i mariti in carcere, tre figli ciascuna a carico. 
Poi carichiamo una signora anziana senza un solo dente integro, che non parla una parola di italiano, e Simone l’accompagna dai carabinieri a fare denuncia di passaporto smarrito. Vuole tornare in Bosnia dalla sua famiglia, al più presto. 
Rientriamo a Scampia che è quasi mezzogiorno. Ma Simone, Giulia e gli altri andranno a prendere i bambini a scuola tra un paio d’ore, e domani la storia si ripete. 

Se fossi coinvolto nell’amministrazione di un Comune, sarei sconvolto all’idea che decine di bambini ghettizzati non vengano nemmeno inseriti a scuola, oltre a vivere come bestie. Una bomba sociale ogni giorno più carica, che prima o poi andrà ad esplodere sul futuro della mia terra. 

Con Alice prendiamo la strada parallela alle Vele, alla volta di Chikù, il ristorante italo-rom inventato dall’Associazione Chi Rom e chi no nel cuore della municipalità di Scampia. Qui si fa memoria, tra l’altro dell’immenso lavoro di dialogo, mediazione, prossimità, advocacy e intercultura agito dalla rete sociale di Scampia in questi anni, dal Gridas in avanti. Con una convinzione e una creatività che fanno mangiare polvere ad ogni giunta che ha ricoperto gli assessorati competenti, lustro dopo lustro.

Ordiniamo da mangiare mentre ripensiamo a quello che abbiamo visto con i nostri occhi in una sola mattina, e che è perennemente invisibile e inconcepibile ai più nel resto d’Italia. Ma che, al contrario, per altri è normalità dell’impegno, della missione quotidiana. Amici come Simone, Barbara, Raffaele, Eraldo, Sonia, che trovano il loro modo di abitare quell’invisibilità, nelle pieghe del mondo. Alcuni ci sono arrivati per militanza sociale, altri per Vangelo, altri per imitazione del senso forte che hanno ricevuto. Ma sanno dove stare, e come stare, in uno dei Paesi più ricchi del mondo che pare sempre più in crisi non tanto di economie e politica, ma proprio di senso base dell’umano.

Dal terrazzo guardiamo intorno le Vele, ancora da abbattere. L’Università, finalmente attiva, ma ancora da aprirsi al quartiere. Il Centro Hurtado e la palestra Maddaloni, poco sotto di noi, e il Mammut oltre la villa comunale col suo giardino, ormai tallonato in fatto di cura e bellezza dal Parco Corto Maltese e dal Giardino dei Cinque Continenti, dove i cittadini semplici fanno il miracolo. Tra poco prenderemo la metro nella stazione rinnovata e dedicata a quell’artista pedagogo visionario di Felice Pignataro, la cui arte porta ancora il mondo in queste strade. È solo lunedì mattina. E a Scampia c’è già luce.

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Camminatore, comunicatore e musicista, Giacomo D'Alessandro vive a Genova. Le prime tracce di un blog ispirato alla figura del "ramingo" sono del settembre 2006. Una lunga e variopinta avventura tra il camminare e il raccontare, in tanti modi, grazie a tanti compagni di viaggio.