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Papa Francesco, cosa ha detto davvero a Genova – Vino Nuovo.it

Basso profilo, sincera prossimità, consigli precisi. Si potrebbe riassumere così la visita di papa Francesco alla città di Genova. Non si è visto un Francesco esuberante, da fuochi d’artificio, nè si sono sentite particolari sferzate, salvo alcune eccezioni. Perché Jorge Mario Bergoglio – che da sempre sceglie oculatamente i suoi viaggi in base a fortissime motivazioni sociali ed ecclesiali – abbia scelto di dedicare una visita a Genova, è una domanda aperta. Di fronte allo spiazzante basso profilo scelto dal Vescovo di Roma nei suoi discorsi, una risposta suona più verosimile di altre: se non è venuto a dire o fare nulla di particolare di cui proprio Genova avesse bisogno, probabilmente è venuto ad ascoltare ed assorbire. A conoscere. A rendersi conto. Forse ritenendola una città dove si concentrano problematiche e condizioni più significative per guardare ad un mondo che cambia. Forse anche in vista del sostanzioso cambio di passo di cui la diocesi ha bisogno secondo molte voci interne ed esterne. Svolta possibile proprio nel giro di un paio d’anni, con il pensionamento del cardinale Angelo Bagnasco. Certo, come detto da quest’ultimo, operai, disoccupati, bambini, malati, migranti, senzatetto, hanno ricevuto un enorme dono personale da questa visita.

Ma proviamo a sintetizzare per ciascuno dei momenti della giornata gli spunti che il papa ha voluto dare ai genovesi. Alcuni già ampiamente sottolineati dai media, altri poco notati da chi non conosce il contesto in cui cadono. Farò riferimento a dialoghi, perché Francesco ha scelto anche in questo caso il format del dialogo: rispondere a domande e bisogni espressi dalle persone, invece che calare monologhi preparati a sua discrezione. Non farò citazioni virgolettate, per semplificare i concetti.

Il dialogo sul lavoro. Dice: il buon imprenditore crea un ambiente sinodale, in cui si cura della crescita di un progetto e delle persone coinvolte, in cui si pone come un primus inter pares. Lotta e prega con e per la propria gente, sente e crea appartenenza ad una comunità. Chi fa l’imprenditore cercando profitto personale va invece chiamato “speculatore”, ben diverso. Francesco insiste moltissimo su questa distinzione, sul chiamare le cose col loro nome, senza omologare modi di agire opposti. Ed evidenzia un tema sempre troppo ignorato, quello della governance nei luoghi di lavoro, dove spadroneggia il modello capo-sudditi e non certo il modello-democratico. Dice poi: il lavoro mercenario per il profitto personale è da speculatori. Sembra rinnovare la denuncia del sistema capitalista-finanziario con tutte le sue derive, dalla finanziarizzazione delle aziende all’individualismo delle persone. Dice ancora: la burocrazia è asfissiante perché presuppone i furbi e gli speculatori, e per arginare quelli mette freni esasperanti ai puri che farebbero del bene. Ci vuole un sistema che premi e liberi gli onesti da troppi vincoli. Attenti con l’ansia di leggi e regole iperspecifiche, diventano freni alla creatività dei buoni. Conclude con due concetti molto forti: perché ha voluto questo incontro? Perché il lavoro è uno dei luoghi del popolo di Dio, e questi discorsi non sono meno importanti dei discorsi di chiesa: i luoghi della chiesa sono i luoghi della vita. Francesco ribadisce un cambio di approccio pastorale di cui molte chiese locali ancora difettano: l’obiettivo non è insistere che la gente vada in chiesa e nei luoghi della chiesa, ma che la chiesa si abitui che è giusto e prioritario andare nei luoghi della vita, quali che siano in ogni tempo. Ciò non è un di più oltre alle “cose sacre”, ma una priorità della sua missione. Il secondo concetto forte è che non tutto il lavoro è buono a prescindere; ci sono ancora troppi lavori sbagliati, ingiusti, cattivi. Molti valori della grande finanza non sono in linea con l’umanesimo cristiano. E poi traffico di armi, pornografia, gioco d’azzardo, e tutte le imprese che non rispettano i diritti dei lavoratori o della natura. Sono cattivi i lavori totalizzanti, anche se ben pagati, perché la vita non è tutta lavoro. Denuncia come sbagliati socialmente anche privilegi, caste, rendite. Bisogna organizzare la società perché tutti possano contribuirvi e viverci con il loro lavoro, esprimendo un senso e un’appartenenza; non perché tutti accumulino reddito a prescindere da quello che fanno, da spendere in consumi. In questa ottica va riscritto un patto sociale che oggi non tiene più, tra chi non riesce a lavorare per nulla e chi è schiavo di lavori sbagliati o ricattanti e non riesce a uscirne. Vien da dire “lavorare meno, lavorare tutti, accettare solo lavori etici”.

Un simile discorso ha forte valore non solo per Genova, ma per tutto il mondo del lavoro. E non tanto, io credo, per imprenditori e dirigenti, quanto per lavoratori e famiglie, da un lato, che faticano a uscire da mentalità inculcate per decenni, incapaci oggi di sviluppare nuove visioni e modi di lavorare, stare al mondo, di ripensare; e per istituzioni e società civile, dall’altro, che possono se determinati imprimere piccoli ma decisivi cambi di rotta all’organizzazione del sistema lavorativo. Una lotta dura, ma che esige visioni alternative, cambiare le domande per perseguire risposte incisive. Di sicuro Genova è simbolo di una società post-industriale stanca, appesantita, smarrita, sfilacciata, dove il cambiamento è più urgente quanto più potenzialmente rivoluzionario, se vede alleate le diverse forze in campo, con poco o niente da perdere. Un forte input anche alle giovani generazioni sul modo in cui pensare e approcciare il mondo del lavoro, che rischia di essere un idolo da perseguire a prescindere, senza distinzioni e ambizioni etiche.

Il dialogo sulla chiesa. A vescovi, preti, diaconi, religiose e religiosi, il Papa ha dato una serie di consigli mirati e chiesto alcuni precisi esami di coscienza.

Primo: come vivere appieno la missioneImitando lo stile di Gesù, sempre in cammino, tra la folla, in strada, immersi nei problemi della gente, senza soccombere alla fretta o all’agenda iperstrutturata. Si può essere parroci ma non essere cristiani nello stile. Nutrirsi dell’incontro con il Padre e con la gente, a partire dai più emarginati della società. Pregare meno a pappagallo e più in autenticità personale, più in ascolto e in silenzio. Così con la gente. Mi sembrano esortazioni a uscire, a mescolarsi, a vivere il proprio tempo con prossimità e umanità, senza cercare distacchi formali nè di reagire alla complessità con una speculare schizofrenia che diventa impermeabilità e autoreferenzialità. Rischi che la dimensione ecclesiale genovese vive e talvolta alimenta.

Secondo: come vivere la chiesa territoriale? Legandosi a Gesù, non ad altri “salvatori” (su questo Francesco fa una pausa e una sottolineatura particolare, come a dire “i diretti interessati aprano bene le orecchie”). Legandosi ai rapporti, mai alle strutture (altra enfasi chiaramente allusiva). Sospettando di chi si lega troppo alle strutture, carrieristi dal cuore vuoto. Smontando l’autosufficienza che abbiamo creato attorno alla figura del prete che sa tutto, e che non vuol perdere tempo nei confronti sinodali. Tenendo uno stile di vita più comunitario e conviviale, quotidiano. Imparando ad ascoltare chi la pensa diversamente, prendendone l’utile. Imparando a litigare e discutere, segno di libertà e via per una fiducia e fratellenza autentica, non di facciata. Smettendo di parlare alle spalle, mormorare di nascosto degli altri. Su questo Francesco dedica un excursus apparentemente fuori tema su come avvengono le nomine dei vescovi, e dice: è successo che si siano dette calunnie al nunzio su l’uno o l’altro candidato, per gelosie ed invidie. Questo è assenza di fraternità, è tradimento. Parole pesantissime che non avrebbero senso nel discorso se non si riferissero (evidentemente) a qualche fatto avvenuto. Continua chiedendo direttamente ai presenti un esame di coscienza, su quante volte abbiano davvero ascoltato idee differenti dalle proprie e critiche dette da confratelli, su quante volte abbiano mormorato nell’ombra. Cita Canestri (unico citato tra gli ingombranti ex vescovi di Genova) per ricordare che la chiesa è pluralità in una direzione comune. La varietà è lecita. Spesso vogliamo che il fiume divenga piccolo, come siamo noi, e condanniamo gli altri. Questo va imparato dal seminario. Non allevate chiacchieroni, distruttori di fratellanza. Dobbiamo prendere i doni e i carismi di ognuno. Sono tutti concetti calzanti sulla realtà diocesana, dove manca una serena pluralità e dibattito ecclesiale, e per contro sovrabbonda clericalismo, parlare nell’ombra, squalificare ignorando. Con il risultato di un enorme spreco di energie potenziali, e un abbassamento generale della qualità e della progettualità.

Terzo: come vivere il calo di vocazioni? Non come una disgrazia del mondo cattivo, ma come un segno di Dio alla chiesa. E’ un tempo per domandarsi cosa bisogna cambiare.Affrontare i problemi è necessario, e imparare dai problemi è obbligatorio. Non risposte riduttive. Non importazione di religiosi novizi dall’estero, brutto capitolo già scritto in Italia. Puntare sulla testimonianza e sulla conversione missionaria: chi vive da persona felice e fedele al messaggio originario, attrae. Ci sono vescovi e preti che vivono come pagani, e i giovani si allontanano. Certa chiesa spinge fuori la gente. Proporre ai giovani occasioni missionarie a servizio del bene comune, suggerisce il Papa, li rende protagonisti e attratti da una vita piena, dal non vivere per se stessi. La mondanità spirituale (assuefarsi al sistema dominante) è distruttiva. In sintesi, rimarca Francesco, con certi comportamenti siamo noi stessi a provocare certe crisi vocazionali. Le vocazioni ci sono, ma se tu non hai tempo di ascoltare i giovani, la loro fatica, il giovane va a cercare un altro. Concetti assolutamente centrati in una diocesi che non ha affrontato in questi anni lo spinoso tema, limitandosi a evocare preghiere cui non fa seguito un’azione sinodale di ripensamento e cambiamento.

Il dialogo con i giovani. Rispondendo alle domande di un gruppo di giovani impegnati nella Missione Diocesana “Gioia Piena” Francesco ha ripetuto concetti più generici e indirizzato alcune precise provocazioni. La principale ha riguardato proprio la missione diocesana: vi ha trasformati nel modo di guardare la realtà, o sono solo belle parole? Vi sta insegnando ad ascoltare la realtà o guardate delle immagini che vi siete fatti voi? La missione prepara ad essere più attenti alla gente che ci vive attorno, a non perdere la sensibilità giorno dopo giorno. Poi affonda: la missione ci deve aiutare a non essere catari. Ci purifica dal pensare che c’è una chiesa dei puri e una degli impuri. Tutti siamo peccatori. Tutti abbiamo bisogno dell’annuncio, quindi la missione è verso noi stessi prima di tutto, altrimenti sembra che io mi credo puro e annuncio all’altro che è impuro. Togliamoci l’idea che certi gruppi nella chiesa sono più puri. Lo spirito soffia in tutti… Se io parlo alla gente per insegnarle il cristianesimo, meglio che rimanga a casa e preghi un rosario. Se invece la missione mi trasforma per aiutare meglio chi è in difficoltà, per declinare lo sguardo come quello di Gesù verso senzatetto, carcerati, stranieri, malati, mi rende capace di uscire dalle categorie e di andare a incontrare volti, persone, storie. In una società di isolati, di solitudini – aggiunge il Papa – missione è fare comunità, imparare a convivere senza mai escludere qualcuno. Conclude con un input al senso critico: fatevi un giudizio proprio, non mangiare quello che ti servono sul piatto. Che bello il giovane che non si lascia tappare la bocca con facilità, che non è contento di risposte semplicistiche, cerca la verità, in profondo, va al largo, va avanti. Dobbiamo imparare a sfidare il presente. Una vita spirituale sana genera giovani svegli. E arriva l’appello all’accoglienza dei migranti, ad impegnarsi personalmente contro un sistema dominante disumano in questa sfida alle nostre porte.

Il discorso sul potere cristiano. L’omelia al termine della giornata è rivolta a 100mila persone, e si concentra su temi apparentemente più astratti, spirituali. Ma la sintesi è nel solco dei discorsi precedenti: urgente la conversione missionaria di tutti noi chiesa, come chiesto (e ancora troppo ignorato) nell’Evangelii Gaudium. Papa Francesco parte dalle letture sul tema del potere di Gesù. Quale potere? Come lo usa? Per intercedere a favore degli altri. Questo dobbiamo fare come Chiesa. Farci carico delle situazioni del mondo, persone che come Gesù collegano cielo e terra, cioè radicate in Dio, impegnate per l’uomo. Il nostro potere non è prevalere o gridare più forte. Ma pregare nel senso di fare fatica gli uni per gli altri e trovare pace. Per annunciare occorre uscire da se stessi. Non si può stare quieti e comodi, con i ricordi nostalgici del passato. Vietato cullarsi nelle sicurezze acquisite. Nell’andare con fiducia è la forza di Gesù, che non apprezza gli agi e le comodità, ma scomoda, rilancia sempre. La richiesta ai genovesi è chiara: non fossilizzarsi su questioni non centrali, ma dedicarsi pienamente all’urgenza di questo tipo di missione. Lasciando perdere finti confronti tra sordi, e smettendola di mormorare alle spalle senza dire chiaro.

Questi sono gli spunti che ho voluto estrapolare ed evidenziare, perché mi sono sembrati più miratamente rivolti alla realtà genovese. Un invito deciso al cambiamento, sebbene pacatamente, cercando la prossimità. Più che un invito un seme, dice il papa stesso, un’opportunità di preparare il terreno per mettere altro tipo di radici. Alla chiesa locale mette in luce l’urgenza della conversione missionaria, senza la quale ogni traduzione pratica dei messaggi di Francesco rimane di facciata. Eloquente quanto detto ai giovani sulla missione diocesana e al clero sulle vocazioni: testimonianza di un modo di vivere per e con gli ultimi, non proselitismo dei puri verso gli impuri; immersione nelle realtà del mondo con lo stile di Gesù, non rifugio nelle nostalgie ecclesiastiche lamentandosi di un mondo cattivo che non ci capisce. Gli affondi su attaccamento alle strutture, mormorazioni clericali, incapacità di pluralità e di sinodalità, fossilizzazione su pratiche non centrali, dicono tutto, e non li commento nemmeno. Noto soltanto quanto certi concetti calati quasi casualmente nelle risposte di Francesco siano in realtà estremamente mirati e puntuali su grandi equivoci e contraddizioni della pastorale diocesana e della cultura ecclesiastica locale. Nodi su cui ancora una volta siamo portati a riflettere, per camminare insieme. Il seminatore è passato, e già si prodiga da tempo. Terminati gli applausi, chi ha orecchi intenda.

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Camminatore, comunicatore e musicista, Giacomo D'Alessandro vive a Genova. Le prime tracce di un blog ispirato alla figura del "ramingo" sono del settembre 2006. Una lunga e variopinta avventura tra il camminare e il raccontare, in tanti modi, grazie a tanti compagni di viaggio.