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Il fascismo ritorna dall’indifferenza – Liguri Tutti

Al fascismo si arriva attraverso l’indifferenza. In questo momento storico temo particolarmente gli indifferenti, perché lasciano in ombra i “migliori” e danno spazio all’emergere dei “peggiori”. Sebbene il Potere cosiddetto sia ormai chiaramente nelle mani di élite globali economico-finanziarie, e la Politica non abbia più (se mai lo ha avuto) quel potere di intervento strutturale su tutti gli ambiti del vivere, nonostante ciò lasciare il campo a chi grida e sgomita più forte, più selvaggiamente, offre su un vassoio d’argento una bella fetta di potere. Quella che era la delega politica si trasforma nella rinuncia alla selezione, la cui giustificazione è che tanto “non cambia nulla, sono tutti uguali”.

Quello che accade è esattamente il contrario: la scusa del sono tutti uguali tradotta in non-scelta offre la fetta di potere ai peggiori urlatori, al relativamente piccolo concentramento di arrabbiati attivi, che si ritrovano apparente maggioranza.Sono abbastanza convinto che gran parte delle persone in qualsiasi civiltà preferiscano una vita quieta e serena ad una situazione di tensione e incertezza. Ma pare ciclico che alcune masse scivolino nell’indifferenza politica e civica, senza tradurre più questa preferenza nella sfera istituzionale; così come pare ciclico che altre masse scivolino nella rabbia qualunquista delle soluzioni semplicistiche e irreali, del supporto fanatico ai meno credibili e meno capaci.

In una situazione del genere, le risposte articolate e impegnative di una certa lungimiranza su ciò che affligge la società, sembrano diventare totalmente impraticabili, eversive o utopistiche, quando invece sarebbero le uniche da praticare con costanza e fiducia. Neanche i fatti, i risultati e le statistiche contano più, su tutto domina l’estetica, la percezione, la narrazione (ecco alcuni caratteri del fascismo che si reincarnano dominanti).Da ragazzino mi avevano colpito due frasi di “grandi vecchi”, uno era Giorgio Bocca in prima serata TV, l’altro il prozio Nino decano di famiglia. Due novantenni con l’audacia di affermare pubblicamente: “Il vero problema storico dell’Italia è che ci sono ancora troppi fascisti”.

Mentre nella maggior parte dei casi si ascoltava questa parola (come la speculare “anti-fascisti”) solo in contesti altamente ideologizzati e facili alla retorica, per cui le si dava peso assai relativo di fronte al mutare del mondo, pronunciata da due anziani in una sincera normale conversazione questa convinzione mi dava parecchio da pensare. Come minimo mi stimolava ad osservare la realtà con questa domanda: poniamo che sia vero, come si manifestano oggi i caratteri, i sintomi che portano a nuove rinnovate pratiche ed estetiche fasciste? E come mai dopo la “sbornia” della Resistenza e della liberazione dal ventennio e dalla guerra, questo filone ha trovato così ampia continuità e facile riproduzione?

Il bisogno di delegare a uomini forti, in risposta ad un mondo complesso dove molti ambiti della vita sono organizzati e amministrati per masse innumerevoli di individui, è già strada per il fascismo. La non esistenza diffusa di comunità di vita (piccoli numeri), capaci di auto-governarsi attraverso partecipazione più possibile diretta, è già strada per il fascismo. La trasformazione della Politica in discorso mediatico, altamente manipolabile, indifferente ai fatti verificati, è già strada per il fascismo.

Il non approccio in fase educativa dei diritti umani e costituzionali apre la strada a masse di cittadini che non condividono in fondo molti dei valori costituenti della stessa società cui dicono di appartenere. E quindi sensibili a discorsi politici intrinsecamente anticostituzionali.Si sente spesso dire che certe degenerazioni sociali e politiche siano dovute al “fallimento della democrazia”, se non al “fallimento della sinistra”. Trascurando che nella maggior parte dei casi non si è avuta una piena democrazia né una piena azione di sinistra. E’ la tiepidezza a risultare alla lunga nauseabonda perché inutile e illusoria. E la tiepidezza, biblicamente parlando, genera il rigetto feroce. Esempio: dire oggi che sono fallite le politiche di integrazione e che questo giustificherebbe politiche e sensibilità contrarie, significa non vedere che non sono mai realmente state attuate delle serie e piene politiche di integrazione.

Su cosa stiamo ragionando? Certo che il tiepido fallisce e non dà alcuna prova. Lo stesso si potrebbe dire per le politiche ambientali. E anche, soprattutto, per le forme democratiche. Come lamentarsi del basso coinvolgimento se non si sono mai attuate e sviluppate forme più autentiche, dirette ed efficaci di coinvolgimento delle comunità locali? In questo gli elettorati sono per me sempre assai enigmatici: hanno scelto per decenni soluzioni timide, superficiali, di tappullo, e si lamentano poi che non si sono visti cambiamenti strutturali? Così, invece di capire la lezione, per rabbia o non votano più o votano i peggio venditori di fumo… Bella logica!Forse siamo masse di persone abituate da troppo tempo, anche secoli, a fare il tifo, a farci i fatti nostri, ad espletare la partecipazione tramite atti simbolici e mediatici, al massimo con un po’ di volontariato assolutamente dentro al sistema; e sentire così di avere fatto il nostro.

In altri angoli del mondo, le risposte ai problemi sociali le cerca la comunità stessa, mettendo insieme le forze, e solo allora interfacciandosi ad istituzioni più ampie. Non c’è il ricatto del lavoro/non lavoro perché fa da cuscinetto sempre una comunità reale di persone. Da noi i grandi numeri, la complessità inafferrabile, la soffocante burocrazia, l’incapacità di mediazione culturale, ci rendono lontana questa dimensione dell’agire. Le nostre priorità sono più individualistiche: il mio lavoro, la mia casa, la mia famiglia ristretta, il mio tempo libero, il mio potere d’acquisto…e ce n’è già d’avanzo così. E così si genera una partecipazione debole, altalenante secondo il clima generale, pronta a farsi indifferenza quando si rivela la sua gran parte di inefficacia e di impotenza.

Questa diseducazione all’autogoverno collettivo e alla pratica dei diritti umani, la perdita dell’utilità sociale evidente del proprio lavoro come missione collettiva, sono terreno fertile per la voglia dell’uomo forte, del gruppo aggressivo, del cambio drastico e rabbioso, poco importa dei contenuti valoriali a patto che io ne ottenga qualche beneficio personale o di categoria. Chi propone vere alternative rimane invisibile, non capito, senza mai una possibilità, anche perché implicherebbe veramente dei cambiamenti strutturali, e in fondo chi ha voglia di doversi smuovere dalla sua ordinarietà? Apriamo sempre spiragli al fascismo perché in fondo non abbiamo il coraggio di cambiare, noi e la società tutta, in modo equo e strutturale. Più facile tifare quando vien bene, o sposare l’indifferenza a tutto e tutti, o fomentarci la rabbia sorda e ottusa cercando facili soluzioni in urlatori mediocri.

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Camminatore, comunicatore e musicista, Giacomo D'Alessandro vive a Genova. Le prime tracce di un blog ispirato alla figura del "ramingo" sono del settembre 2006. Una lunga e variopinta avventura tra il camminare e il raccontare, in tanti modi, grazie a tanti compagni di viaggio.