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Cosa ce ne facciamo delle periferie? – Liguri Tutti.it

L’attualità del termine “periferie” ne rivela anche l’abuso e l’insufficienza: cos’è oggi periferia, nel tempo del web e dei viaggi low cost, dell’alta velocità e del pendolarismo sfrenato? E’ ancora valida una banale distinzione centro-periferie? Si può parlare di “centri” quando nelle grandi città sono spesso una cacofonia di traffico, uffici, turismo…sempre meno abitati e umanizzati? E contano più le periferie geografiche o quelle esistenziali, che allora scardinano ogni riferimento di luogo e identificano invece le categorie semplificative dei “disagiati” (senzatetto, immigrati, tossici, ubriaconi, disoccupati, vagabondi, anziani…)? Che dire poi del concetto di periferie globali, rispetto al benestante Nord del mondo? Insomma, già la parola ci pone molti, troppi problemi.

Ciononostante, qualche settimana fa mi trovavo ad una tavola rotonda in cui si rifletteva sulle periferie genovesi: nell’ottica di fare il punto della situazione, fotografare le novità e i mutamenti, mettere insieme idee e percorsi possibili per migliorarne le condizioni di vita e di inclusione. Ne ho approfittato per rileggere alcune esperienze che ho vissuto gli anni scorsi, in particolare a Scampia, area nord di Napoli, periferia per eccellenza; ma anche a Villapizzone, area ovest di Milano; e infine a Genova nei quartieri Lagaccio, Certosa e Voltri.

Prima prospettiva: ci serve una riqualificazione mentale, un salto culturale per renderci conto che, prima ancora di periferie e centro, c’è un errore a monte che oggi paghiamo: la città moderna come creatura insostenibile. E’ la città ad essere sbagliata, a generare problemi di difficile risoluzione, ad abbassare la qualità della vita della maggior parte dei suoi abitanti. Città che nasce in stretta relazione con le rivoluzioni industriali, la promessa del progresso, l’inurbamento selvaggio, la speculazione edilizia, la gestione emergenziale, la corsa al consumo. Prima di ciò, le città erano formate da numeri molto più contenuti, non per niente ne ammiriamo i centri storici, le opere d’arte e le “perle” naturalistiche. Tutto ciò che è città moderna non ci fa vanto né ci stimola desiderio o senso del bello: quartieri di palazzi e casermoni, strade trafficate, distese di auto e parcheggi, industrie e capannoni di metallo e cemento, cantieri continui, ciminiere, zone periferiche improvvisate come quartieri dormitorio, costipatori di carne umana “disagiata”. Vengono in mente le fotografie iconiche dei lotti di Scampia ma di tutte le varie “Scampia” sorte in ogni grande città nel secondo Novecento.

Il delirio della città moderna ne ha compromesso la governabilità, rende difficilissimo garantire buone condizioni di vita e servizi in tutte le zone, crea distacco tra abitanti e amministratori, tra abitanti e appartenenza, impegno attivo sul territorio, soffoca l’unicità storica e culturale delle singole zone, in una forzata omologazione che crea ghetti o dormitori o periferie. Inoltre favorisce l’individualismo e l’anonimato, l’esigenza della segregazione per ceti, etnie o interessi; vivere fianco a fianco senza conoscersi né avere intenzione/necessità di farlo. Se non iniziamo a ragionare in quest’ottica, continuiamo a parlare di “politiche necessarie” e mai sufficienti con una frustrazione che non ci spieghiamo, perché non concepiamo un cambio di approccio: è la città moderna ad essere sbagliata, una degenerazione di svariati processi storici, civici e mentali. Solo questo ci può dare la libertà e la serenità di immaginare efficaci e corposi cambi di politiche del territorio.

Seconda prospettiva: in un’epoca in cui la comunicazione e l’interazione non sono certo più una difficoltà o un’opzione di pochi, non dobbiamo aver paura di frammentare la città moderna. Quelli che una volta erano paesi e sono stati brutalmente inglobati nell’indefinito agglomerato urbano, dall’assenza di buonsenso urbanistico, devono tornare ad essere concepiti mentalmente e urbanisticamente come paesi, o quartieri con una propria storia e identità uniche. Genova ha gioco facile in questo, data la sua estensione in lunghezza; molti “quartieri” hanno conservato e a volte recuperato la loro realtà di “paesi”. La città deve diventare una federazione, una rete, un agglomerato di paesi e villaggi, dove il nome di Genova corrisponde alla sua area centrale storica, in base ad una ragione geografica e morfologica evidente. Questo è il passo necessario per recuperare un rapporto stretto tra abitanti ed amministrazione del luogo – unico, misurabile ed identificabile – in cui vivono.

Terza prospettiva: è necessario non continuare a costruire ma liberare spazi, rimuovendo quelle costruzioni urbanisticamente folli che hanno tappato interi quartieri, valli, passaggi e spazi verdi. Occorre dare respiro allo stuolo di palazzi accatastati uno sull’altro che sono stati ammassati nella città. Il verde che non c’è va inventato, va creato, va sentito come quel respiro mentale, fisico e psicologico necessario ad alzare la qualità della vita dentro la città. Città che deve diventare un variopinto arcipelago che alterna isole abitate ad isole verdi (Hungers lo sosteneva negli anni ’80). Questo richiede il coraggio di demolire, e dall’altro di recuperare edifici vuoti o non utilizzati. La costruzione del nuovo (che spesso ha senso per cercare maggiore efficienza energetica o anti-sismica) va compensata eliminando l’inutile o il dannoso, oltre che il brutto. Luoghi imbruttiti, scheletri sventrati, cattedrali nel deserto imbruttiscono anche la vita e il pensiero.

Quarta prospettiva: insieme agli spazi verdi vanno date ad ogni zona abitata delle piazze, vere piazze, rimuovendo macchine e parcheggi scriteriati che impediscono il passaggio delle persone, il gioco, la chiacchiera, la sosta e il lavoro di gruppo. Sono cresciuto in un quartiere dove la “piazza” è costituita da un enorme parcheggio, una strada di transito, un benzinaio, un capolinea degli autobus e un supermercato. Come può un bambino trovare modo di esprimersi in una dimensione del genere? Dove stanno la sua libertà e l’umanità che riceve? Dove la qualità della vita di tutti? Restituire piazze umanizzate, vivibili, calme, partecipate, è l’unico modo di ridare spazio vitale a quartieri di appartamenti individualisti, dormitori, ammasso di persone senza un senso comune e una possibilità d’incontro. Che infatti si rinchiudono nel privato.

Quinta prospettiva: si ragiona spesso della difficoltà di fare politiche che generino socialità, mutuo aiuto, partecipazione, dialogo ecc. Questo perché non si considera l’errore a monte che è l’abitare individualista, favorito dalla forma “appartamento”. Possiamo anche ottenere tutti i soldi e tutti i progetti possibili, ma se la forma dell’abitare praticata da migliaia, milioni di persone rema contro, è come voler abbattere un castello allenandosi a soffiare molto forte. Invece di aggiungere attività, servizi, eventi, impegni, occorre ribaltare l’approccio e proporre un modello diverso di “abitare”. Cioè intervenire sulla quotidianità delle persone, non esclusivamente sul loro tempo libero o sulle loro attività fuori di casa. E questo si può fare alimentando due tipi di presidi territoriali: le comunità di famiglie e il co-housing. L’esperienza di Villapizzone a Milano, che ha gemmato circa una trentina di altre comunità di famiglie in tutta Italia, è forse una delle più integrate in un tessuto urbano lavorativo e sociale, rispetto ad esperienze analoghe ma al prezzo dell’isolamento. E dimostra come il solo fatto di abitare “insieme” da parte di famiglie che lo scelgano diventa motore per farsi presidio territoriale, luogo di ascolto, incontro, espressioni sociali, scelte e percorsi di cambiamento educativo, civico ed etico. Non autoreferenziale ma contaminato e contaminante con l’intero quartiere.

Sesta prospettiva: appartiene certamente al nostro tempo l’esigenza di muoversi, con rapidità ed efficacia. Bisogna incentivare le persone a muoversi meno per tutto ciò che è superfluo, burocratico, obbligato, consumistico; e a muoversi meglio e facilmente per esplorare il territorio, il mondo, contaminarsi e mescolarsi con altre realtà e culture, formare la propria sensibilità di “cittadini del mondo” capaci di accogliere ed essere accolti. In un’area urbana è giusto potersi muovere da qualsiasi punto con mezzi pubblici efficienti e scoraggiare o interdire il traffico privato, che deturpa la qualità della vita. Anche tra città e grandi distanze occorre potersi muovere rapidamente. Il trasporto su rotaia dev’essere il primo, il più efficiente e il più conveniente in entrambi gli scenari. Anche sviluppando soluzioni che consentano la rimessa in funzione delle tratte abbandonate, capillari in zone rurali e montane, magari inventando una forma moderna di piccole cabine automatiche semoventi al comando di chi sale, come una cabinovia su terra. In uso solo quando serve. La stessa idea di cabinovia su terra a dimensione quasi individuale e quindi ad uso “personalizzato” potrebbe prendere piede anche in certe zone urbane abbattendo i costi di un servizio pubblico spossato e comunque insufficiente alle troppo diverse esigenze di tutti i cittadini.

L’implementazione del cosiddetto “sharing”, utilizzare mezzi non propri ma a disposizione in diversi snodi della città (macchine elettriche, biciclette) può davvero favorire la diminuzione dei mezzi di trasporto a favore di un guadagno di silenzio urbano (il rumore artificiale cui siamo assuefatti è una dannosa violenza alla qualità della vita). Ancora più facile e immediato è evidenziare e favorire i percorsi pedonali. A Genova, con la sua quantità di vicoli, salite mattonate, scalette e scorciatoie, ciò è particolarmente intuitivo: segnalare in strada le direzioni pedonali, i minuti di percorrenza, i dislivelli se ci sono, aiuta chiunque a superare l’incertezza e l’abitudine, per sfruttare percorsi che spesso sono più rapidi, tranquilli ed efficienti dal momento che saltano e ignorano il traffico cittadino e il problema del parcheggio.

Settima prospettiva: vivere gli spazi verdi e le piazze è necessario per creare la vera sicurezza, che non è militarizzazione né controllo via telecamera, ma percezione di non essere soli, di punti di appoggio rassicuranti, di compagni di spazio affidabili. Non si può puntare sul verde urbano se non si dà linfa alla sua frequentazione. Penso a città come Milano dove i parchi urbani sono in diversi momenti della giornata aree di jogging, ginnastica, yoga, arte… Occasioni favorite e guidate da qualcuno formato a farlo. Un istruttore sportivo o un educatore di strada presenti nelle ore adeguate in diversi spazi cittadini possono offrire pretesto e sicurezza alle famiglie di far uscire bambini e ragazzi, ma anche attrattiva per fasce intergenerazionali, adulti e anziani. Questa strategia senza costi eccessivi permette di passare da spazi non sicuri e terra di nessuno a luoghi di ritrovo e di crescita collettiva, luoghi animati, ai quali affezionarsi e per i quali mettere anche a servizio la propria cura. La stessa filosofia vale per le piazze, dove è assurdo che stia prendendo piede la politica di eliminare panchine e tavoli così da rimuovere alla vista senzatetto e vagabondi. Per la paura e l’incompetenza eliminiamo gli strumenti con cui si può vivere un luogo, perché non sappiamo coinvolgere gli abitanti nella sua cura ma ragioniamo in termini di costi, dissidi, disagi, manutenzioni… Riportiamo nelle piazze sedie, panchine, tavolini, e soprattutto i giochi di una volta, giochi di strada e da tavola, di abilità e intelligenza, attrattivi per tutte le età. Appartenenza, sicurezza e socialità partono anche da qui.

Ottava prospettiva: l’intramontabile pratica di coltivare un piccolo orto deve trovare più spazio anche nelle città. Penso all’esperienza dei Pollici Verdi o del Parco Corto Maltese a Scampia, a quello che potrebbe essere parte della Villa Comunale in disuso; ma in generale a tutte le diffuse politiche sugli orti urbani affidati a cittadini. Sarebbe bello se a ciascun diciottenne invece che qualche finto bonus o la sola fredda tessera elettorale venisse affidato un temporaneo appezzamento di terra. Da revocare se non utilizzato, da rinnovare se messo a frutto. Il rapporto con la terra, con ciò che cresce e che ha bisogno di cura e creatività, non è solo educativo e fonte di armonia interiore naturale, ma anche un modo di abitare e ricavare spazi verdi, incoraggiare una dedizione settimanale ad una pratica lenta, antica, pacifica, che può dare frutti comunque utili alla sussistenza (e uscire così dall’ottica che tutto si compra e va fatto arrivare anche dall’altra parte dell’oceano, pur di pagare poco e fare in fretta).

Sono solo alcune prospettive, ma parte di una “visione integrale” che spesso ci si accusa reciprocamente di non avere. Essa non esaurisce certo il complesso tema delle cosiddette periferie, anche se prova a uscire dalla banale distinzione tra cosa è periferia e cosa non lo è. Perché sotto certi aspetti il nostro sistema sociale crea ovunque e comunque periferie, nel senso di vite periferiche. Abbiamo bisogno di riqualificazioni mentali, e di riflessioni-azioni collettive determinate, mirate, per recuperare dimensioni umane rimosse, insieme ai vantaggi e ai progressi (quelli umanamente validi) della nostra epoca. La sfida insomma è di “tornare al futuro”.

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Camminatore, comunicatore e musicista, Giacomo D'Alessandro vive a Genova. Le prime tracce di un blog ispirato alla figura del "ramingo" sono del settembre 2006. Una lunga e variopinta avventura tra il camminare e il raccontare, in tanti modi, grazie a tanti compagni di viaggio.